Secondo l’associazione Medici per l’ambiente le cremazioni producono emissioni inquinanti, al pari di un inceneritore di rifiuti. Oggi non c’è una normativa nazionale che imponga limiti e stabilisca criteri per la costruzione degli impianti

Sempre più diffusa, la pratica della cremazione inizia a destare preoccupazioni ambientali. A inizio 2022 ci pensò già il Consiglio di Stato a definire il forno crematorio “un’industria insalubre di prima classe” proprio come gli inceneritori di rifiuti, nell’ambito di un contenzioso tra una società privata, che voleva ampliare il numero di cremazioni annuali, e il Comune di Civitavecchia che voleva limitarle, dando ragione a quest’ultimo. Oggi è la Società italiana dei medici per l’ambiente (Isde) a pronunciarsi sul tema. Non per condannare la pratica in sé – ci tengono a sottolineare dall’associazione – ma per sollevare un problema: l’assenza di una normativa nazionale. Un’assenza pesante, in un Paese in cui ogni anno vengono cremate circa 250mila persone (oltre una su tre, dati 2021).

Come un inceneritore

L’Isde ha espresso il suo parere in un position paper dove segnala come la combustione delle salme provochi l’emissione di monossido di carbonio, acido cloridrico, mercurio, ossidi di azoto, biossido di zolfo, composti organici volatili, metalli pesanti, diossine, policlorobifenili e particolato. Non solo: “Ulteriori sostanze pericolose per la salute possono derivare dalla combustione della bara e dei tessuti/abiti con i quali viene rivestita la salma”.

Il paragone tra impianti di cremazione e inceneritori di rifiuti, fatto dal Consiglio di Stato nel 2022, è calzante anche secondo l’Isde. Agostino Di Ciaula, che dell’associazione è presidente del comitato scientifico, conferma infatti che “la tecnologia alla base è identica: un trattamento termico a temperature elevatissime. La differenza è che, a parità di emissioni, gli inceneritori sono molto regolamentati (e in ogni caso hanno un impatto ben documentato sulla salute e sull’ambiente), i crematori no”.

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Di Ciaula spiega che mentre fino a pochi anni fa l’argomento era piuttosto marginale, oggi è sempre più rilevante perché è aumentato l’interesse degli italiani per la cremazione e, di conseguenza “anche le richieste di autorizzazione di nuovi impianti, oltretutto sempre più grandi. Tutto ciò in un contesto in cui manca una normativa organica a livello nazionale”.

Un vulnus che, sostiene l’Isde, complica la vita a chi dovrebbe monitorare le emissioni e chiedere che vengano abbassate il più possibile. Il punto è: se non c’è una legge che le obbliga a costruire impianti più efficienti, perché le imprese – che hanno tutto l’interesse ad aumentare le cremazioni – dovrebbero investire in tecnologie green?

Un dato, anzi una data, fornisce la misura esatta dell’oblio in cui è caduto l’argomento: il 2001. Risale a 23 anni fa la legge 130 “Disposizioni in materia di cremazione e dispersione delle ceneri”, che prevedeva l’emanazione di un provvedimento interministeriale che non ha mai visto la luce. Un provvedimento che avrebbe dovuto definire le norme tecniche su come realizzare gli impianti di cremazione, stabilire dei limiti di emissione e persino quali materiali utilizzare per costruire le bare per la cremazione.

Le alternative

L’aumento delle cremazioni è anche dovuto a un sostanziale via libera della Chiesa. Nel 2016 infatti la Congregazione per la dottrina della fede sostenne che, sebbene la sepoltura sia preferibile, in quanto il modo migliore per “esprimere la speranza nella risurrezione corporale”, la cremazione “non è di per sé contraria alla religione cristiana”. A oggi questa è l’unica alternativa alla sepoltura, almeno in Italia. All’estero infatti ci sono almeno altre due forme: una è la cosiddetta “cremazione ad acqua”, legalizzata alle isole Hawaii nel 2022, in cui il corpo viene sottoposto a una decomposizione accelerata attraverso l’immersione in un liquido alcalino per sei ore. Alla fine rimangono solo le ossa, che possono essere tritate e conservate in un’urna.

Poi c’è il “compostaggio umano” o “terramazione”, una diversa forma di sepoltura in cui i resti si trasformano in un terriccio fertile. L’idea è che da un cadavere possa nascere, ad esempio, un albero: nuova vita. Questo metodo, approvato anche in alcuni Stati degli Usa, prevede che il corpo venga avvolto da una miscela di materiali biologici che stimolano l’attività dei microrganismi, responsabili della decomposizione. Nel contenitore viene immesso sempre nuovo ossigeno per non far interrompere il processo. Dopo circa due mesi si tolgono le ossa e dopo qualche altra settimana il terriccio fertile è pronto. Pratiche che, però, non sono ammesse in Italia.